Il quattordici novembre duemilaundici, sul far del giorno, un omuncolo senza qualità, decise di tornare a distendersi sul letto, per fare il punto della propria situazione storica e considerare il dar farsi.
La situazione la trovò poco chiara. Il Premier Berlusconi si era dimesso da non molto e nonostante ciò all'orizzonte si disegnavano sagome sfatte di impoverimento culturale generalizzato.
L'omuncolo sospirò pur senza interrompere l'attento esame di quei fenomeni consunti e con le forze rimastagli tirò su il tronco per sedersi ai margini del letto e fu in quel momento che prese la decisione di scrivere qui, pensando di esorcizzare qualcosa, qualsiasi cosa sopratutto la speranza di stappare la propria narice destra che l'opprimeva da giorni.
Insomma per dirla alla Queneau:
“ senza indugio individua il sentiero adeguato e vi marcia di buon passo. Ed ecco che si accorge di aver preso un sentiero heideggeriano.
Applicando una teoria probabilistica, s’inoltro in un’altra direzione aleatoria quanto arbitraia, continuando a errare così fino al crepuscolo”
Ebbene, ho deciso che periodicamente pubblicherò stralci della mia memoria "cimiteriale", abbinata alla contemporaneità (non so cosa significhi ma forse affascina altri che hanno intrapreso un sentiero Heideggeriano come me).
Quindi iniziamo.....
Nevica su un paesino anonimo della Toscana in un imprecisato periodo del secolo. La luce del giorno si sta affievolendo producendo delle lunghe ombre sui muri delle case. Padre e figlio siedono accanto, compiti all'interno di una grande automobile. Il padre porta un berretto nero da autista, il ragazzo, di circa undici anni, pettinato con cura, sul suo volto traspare un'aria orgogliosa dovuta dalla sua "posizione". Il padre si rivolge al ragazzo dicendogli:
-Ricordati che bisogna sempre andare avanti molto lentamente.
Il ragazzo non risponde, è molto concentrato nell'imitare i gesti e le manovre del padre.
L'automobile si cui i due viaggiano è un vecchio carro funebre nero, seguito da un corteo di persone anch'esse nere. L'atmosfera risulta particolare, un grosso serpente nero che percorre in silenzio la bianca strada del paese.
Questo è il ricordo del mio primo funerale, cui partecipavo direttamente in modo ufficiale. Ero teso e fiero. All'interno di quel carro, potevo osservare i miei coetanei con una certa aria di superiorità. Eseguivo un lavoro importante: "l'aiuto-becchino". Mio padre, infatti, era il custode del cimitero del paese.
Io e la mia famiglia vivevamo in una casa all'interno del cimitero. Non era precisamente una di quelle case da rimanere entusiasmi, visto che originariamente erano previsti i locali dove eseguire le autopsie. Comunque mio padre la spacciava a tutti noi come "un piccolo accogliente appartamento in un grande condominio" e vi lascio immaginare chi fossero stati gli altri condomini.
Mio padre, di nome Remo, era un tipo taciturno e pacato, abituato tutto il giorno ad avere poche conversazioni con i "clienti", continuava così anche in famiglia. Il suo lavoro diurno aveva un'appendice serale anche in casa.
Il tinello della casa, aveva una duplice funzione, quella consueta di sala da pranzo ed una più stravagante di laboratorio, dove Remo operava sulle lapidi di marmo attaccandoci sopra le lettere, cornici per le foto in ceramica e piccoli crocifissi di bronzo o di semplice alluminio per "clienti" meno facoltosi. I delicati piatti preparati dalla nonna con l'aiuto della mamma, si trasformavano in una sorta di "polenta esoterica", composta non solo da farina vegetale ma soprattutto da "nuvole bianche di marmo", condite da un aroma speciale di mastice.
C'erano solo due camere da letto, perciò erano sfruttate al massimo. Nella prima ci dormivamo io e miei genitori. Il mio piccolo letto era posto in un angolo della stanza attiguo alla porta che conduceva nella seconda camera. In questa "riposavano": la nonna Aurelia, le mie due sorelle, Gabriella e Graziella, infine mio fratello maggiore Andrea.
Tutto sommato il clima era dolce ed accogliente. Quella strana casa mi aveva accolto proprio mentre venivo al mondo e quella era la mia area di appartenenza, vivevo all'interno di un "grande condominio", isolato dal resto della comunità ma era per me un luogo fantastico, un isola in cui rifugiarsi per trovare situazioni eroiche, esaltarsi del proprio coraggio e dichiarare la propria libertà e diversità dai miei coetanei.
Nessun commento:
Posta un commento